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Con il passare degli anni, accarezzo sempre più l’idea di giocare contro le generazioni future giocando con la storia.”

Roger Federer

La storia

Gianni Clerici racconta la sua "idea"

Quando è nato il gioco del tennis?
La letteratura ci aiuta a definire un periodo storico grazie al trattato del Giuoco della Palla dell’Abate Antonio Scaino da Salò, pubblicato nel 1555 in volgare e dedicato al principe Alfonso d’Este, figlio del duca di Ferrara, Ercole II.
Scaino fissa le regole di un gioco che, praticato in italia come in tutta Europa, oggi conserva testimonianza della sua diffusione in Italia nelle “balette” antesignane delle attuali palline da tennis.

Queste sfere di cuoio, risalenti al XVI secolo, sono state rinvenute nel 1936 all’interno del Palazzo della Signoria a Jesi - 9 in tutto - che vanno ad aggiungersi a 6 trovate a Mantova (3 in una soffitta di palazzo Te e altre 3 nella Basilica Palatina di Santa Barbara), ad una rinvenuta ad Urbino e ad altre da collezioni private. Di un’altra baletta trovata a Venezia si sono perse le tracce.

La rielaborazione da parte di Giovanni Andrea dell’Anguillara, traduttore di Ovidio, delle Metamorfosi, ipotizza la pratica del gioco della pallacorda ad un’epoca ancora più antica: nel mito di Apollo e Giacinto il dio del sole viene descritto come esperto tennista che, con un colpo micidiale di racchetta alla pallina di cuoio (la baletta) raggiunge Giacinto alla tempia e lo uccide.

Molto interessante l'aneddoto narrato dal professor Ugo Bazzotti, storico dell’arte e tra i componenti del Comitato Scientifico del Club, sulla partita giocata dall'imperatore Carlo V nella sua prima visita a Mantova, ospite del marchese Federico II Gonzaga. Si narra che nonostante l'Imperatore fosse talmente “bravo", giocando 20 scudi d'oro a partita, in 4 ore filate riuscì a perderne ben 60. Scrive Bazzoti: ”Ma come, l’imperatore è un bravissimo giocatore e riesce a perdere ben sessanta scudi d’oro? Da parte del cronista sarebbe ben offensiva – e rischiosa – un’uscita tanto sarcastica nei confronti del sovrano. Eppure il professor Giacinto Romano (1854-1920), apprezzato storico, per lunghi anni titolare della cattedra di Storia Moderna all’Università di Pavia, trascrive proprio in tal modo, da un manoscritto cinquecentesco, l’esito della partita. E tutti abbiamo accettato tale trascrizione, fino a oggi. Ma il sottoscritto, sempre più dubbioso, è voluto risalire alla fonte, e giunto al passo specifico del manoscritto, conservato alla Biblioteca Universitaria di Pavia, ha trovato che Carlo non perse, bensì prese «sexanta scudi d’oro». Quello che in lingua si chiama metatesi: un’inversione di lettere all’interno di una parola, ma nel nostro caso una svista non da poco: perse è polarmente opposto a prese! «Date a Cesare quel che è di Cesare», ammonisce il Vangelo, e noi eseguiamo di buon grado – seppure in ritardo di cinque secoli – rendendo giustizia al regale tennista, mirabilmente efficace con le balette di Palazzo Te. L’esito della partita ebbe forse un suo peso nella storia di Mantova: una dose di buonumore per la brillante prestazione sportiva, in aggiunta a un cospicuo versamento di denaro dalle casse gonzaghesche a quelle imperiali, di lì a qualche giorno indusse il sovrano a elevare Federico II Gonzaga dal rango di marchese all’alta dignità di duca di Mantova."

∗ Il testo in volgare di Scaino non ha avuto riedizioni in italiano fino a quella a cura del prof. Giorgio Nonni dell'Università di Urbino ( Anno 2000 edizioni Quattro Venti), che sottolinea anche i difficili aspetti filosofici e politici di questa disciplina

 

 

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