Appunti sul gioco della palla a Mantova in età gonzaghesca
L’isola del Te e il palazzo di San Sebastiano
Giulio Romano, allievo ed erede di Raffaello, giunge a Mantova nell’ottobre del 1524 su invito del marchese Federico II Gonzaga (1500-1540). Il signore affida immediatamente al nuovo artista di corte l’incarico di ristrutturare la vasta scuderia sull’isola del Te, costruita a «un tiro di balestra» dalle mura urbane nel 1502 dal padre Francesco II (1466-1519), per trasformarla in un «poco di luogo da potervi andare e ridurvisi tal volta a desinare, o a cena per ispasso» (Vasari). In breve tempo Giulio crea la celebre villa che ancor oggi ammiriamo. Nel corso dei lavori, in una lettera del 31 agosto 1526, Giulio fa presente al principe che farà ricoverare materiali da costruzione «in lo ioco de la balla»: è questa la prima menzione del campo coperto della racchetta, come spesso verrà nominato l’edificio, dedicato al gioco del tennis. È pertanto da supporre che tale struttura coperta fosse preesistente all’attuale palazzo e fosse stata costruita assieme alla scuderia ultimata nel 1502. Misurava all’incirca metri 24,5 per 11,5 e vi si poteva accedere anche dall’ambiente interno che di lì a qualche anno Giulio Romano avrebbe trasformato nella famosa camera dei Giganti: nella parete meridionale – è scoperta recente – si cela ancora la porta di comunicazione, nascosta dagli affreschi. L’imperatore Carlo V, nel corso del suo soggiorno mantovano del 1530 si esibirà in tre partite nella racchetta, come si narra in questo stesso sito.
Francesco II aveva inoltre fatto edificare il Palazzo di San Sebastiano, attiguo alla porta urbana affacciata sul Te. Nelle sue sale sfarzose affacciate sul lago e su bellissimi giardini trascorse i suoi ultimi anni. Il giovane Federico vuole dotare anche la ‘delizia’ paterna di due nuovi campi da gioco, «uno da balla picola», dietro il palazzo, «l’altro da grossa… tra il monastero de San Sebastiano et il muro dil giardino dil palazo», debitamente rettificato e innalzato. Queste informazioni le invia Vincenzo de’ Preti a Isabella d’Este, madre di Federico, il 15 aprile 1525; opportunamente, il funzionario di corte avverte che, a proposito del monastero, bisogna «far la spesa di qualche ducato per fare le ramate [reti metalliche] a tutte le sue finestre [che] sono verso la strata, a ciò non vi entrino le balle».
A Palazzo Ducale
Nel maestoso, antico complesso della corte, oggi noto come Palazzo Ducale, sappiamo che esisteva un campo da tennis che venne eliminato per far luogo, a partire dal 1562, a un solenne, magnifico edificio sacro: la basilica palatina voluta dal duca Guglielmo Gonzaga (1538-1587), figlio di Federico II. Il duca fu un buon amministratore, diede lustro allo Stato e al casato investendo molto anche in ambito religioso. La basilica di Santa Barbara, eretta dall’architetto Bertani, ebbe il privilegio di un messale proprio, fu dotata di pregevoli opere d’arte e risuonò di musiche sublimi, composte appositamente per le cerimonie sacre ivi celebrate. Ancor oggi si visita la basilica con ammirato stupore e si può avere l’occasione di ascoltare la voce commovente dell’organo originale (1565) del famoso Graziadio Antegnati.
I luoghi deputati ai giochi della palla fervevano, allora come oggi, dell’esuberante entusiasmo degli spettatori, che non di rado scatenavano risse furibonde. Tutti ricordano il dramma vissuto a Roma da Caravaggio, originato in un campo di pallacorda e pervenuto a conseguenze fatali, ma anche a Mantova potevano accadere spiacevoli incidenti. Uno assai clamoroso si verificò nel campo di pallone identificabile in quel vasto spiazzo interno a Palazzo Ducale che ancor oggi gli abitanti chiamano piazza del Pallone, nonostante la trasformazione a giardino e la denominazione ufficiale di piazza Lega Lombarda assegnatagli nel lontano 1876. Il 28 agosto 1622, tra gli spettatori di una partita «al ballone» si accese uno scontro – verbale e fisico – tra un «frate del rocchetto» (canonico regolare di San Salvatore) e il pittore di corte Domenico Fetti, entrambi attorniati da fiancheggiatori con armi alla mano. La lite non risulta causasse ferimenti, ma apparve oltraggioso il fatto che si svolgesse sotto gli occhi del duca Ferdinando Gonzaga (1587-1626). Fetti, come racconta egli stesso in una particolareggiata lettera inviata al duca il successivo 10 settembre, fuggì a Venezia e non fece più ritorno, nonostante le sollecitazioni ricevute dalla corte mantovana.
Ruderi e balette
Dei campi creati dai signori di Mantova per il gioco della palla si conservano rare carte d’archivio e il rudere della racchetta di Palazzo Te, demolita nel Settecento. Mi sembra emblematica, a questo proposito, la fotografia con Gianni Clerici, in visita al palazzo in una piovigginosa giornata di marzo (2013). Il nostro Presidente Onorario è ritratto mentre contempla la piattaforma posta a protezione delle sconnesse fondamenta della racchetta in cui il trentenne Carlo V diede prova di valore tennistico. L’immagine rievoca i dipinti e i disegni che, specie in epoca neoclassica, ritraevano grandi artisti e letterati in nostalgica meditazione di fronte alle gloriose rovine dell’antica Roma.
Un poco ci consola il fatto che, in epoca recente, siano emerse altre testimonianze materiali, umili ma preziose, del gioco della palla piccola: tre antiche palline a Palazzo Te e tre in Santa Barbara. Le prime rinvenute tra i rottami del sottotetto nel corso dei restauri del 1989, le altre in un ripostiglio murato, scoperto accanto all’arcata di una porta secondaria della basilica. Tutte sono imbottite probabilmente di lana ovina, come pare di constatare attraverso buchetti praticati dai topi, ma come meglio potrebbero precisare analisi specialistiche. Appaiono più sode e costipate le palline del Te, tra le quali una è rafforzato da una rete esterna di corda, come si praticava ancora nel Settecento: si vedano le belle incisioni nella settecentesca Encyclopédie (voce Paulmerie, tav. 4). Palline destinate al rude gioco di giovani competitori, che non temevano di esporsi ai violenti tiri degli avversari. Le ‘balette’ trovate in Santa Barbara (accanto a un nocciolo di pesca) sono differenti. Una è di pelle rovesciata, a spicchi gialli e bruni, e assomiglia alle palle di pezza che ancora nel Novecento i bambini potevano acquistare alle fiere di paese, legate a una corda o a un lungo elastico; le altre due sono di qualità elevata e sembrano confezionate con pelle di pecora. Spicca per eleganza la maggiore delle due, decorata a semplici, eleganti motivi floreali, un po’ alterati dal tempo ma leggibili: erano corolle rosse con sepali, steli e foglie dipinti nelle varie tonalità del verde e del bruno. Palle delicate e trattate pittoricamente come miniature su pergamena, cucite con precisione, non idonee ai violenti colpi della racchetta, ma ai colpi più morbidi del gioco «da mano alla distesa» o al «gioco da mano con la corda» di cui parla Antonio Scaino. Quell’antico ‘gioco di palma’ che porta al francese jeu de paume.
Ugo Bazzotti